
Cosa significa stare vicino ai giovani atleti oggi
“Un allenatore è qualcuno che ti dice quello che non vuoi sentire, ti fa vedere quello che non vuoi vedere, in modo che tu possa essere quello che hai sempre saputo di poter diventare.”
Tom Landry
Pubblichiamo con piacere un’intervista a Mario Beretta, condotta dal team di Psicosport in un progetto di Storytelling legato al Master in Psicologia dello Sport. Mario Beretta, allenatore e dirigente calcistico dell’alto agonismo, ci dà molti spunti di riflessione sul ruolo dell’allenatore, sul suo approccio ai giovani atleti e sul rapporto con le famiglie.
Il lavoro di Mario Beretta nel calcio è frutto di una grande passione per questo sport che l’ha portato a studiare Scienze Motorie e a sviluppare al meglio questa sua strada. Nasce come allenatore, prosegue come responsabile, per concludere ad oggi con la dirigenza accompagnata dalla formazione dei giovani allenatori. Nella sua veste di allenatore ha incontrato moltissimi giovani atleti, ognuno che arriva con la sua personalità, il suo linguaggio e le sue paure; fin dall’inizio la sfida è quella di trovare la chiave per comunicare con loro, per comprendere le loro sfaccettature e capire qual è la strategia giusta con quell’atleta.
“Ho sempre cercato di capire da solo, anche sbagliando – dice Beretta – e soprattutto all’inizio credevo che la comunicazione fosse uguale con tutti. Poi mi sono accorto di sbagliarmi, perché ognuno ha il suo carattere e la sua testa e man mano ho iniziato a comunicare in modo diverso con tutti: dal punto di vista tecnico ovviamente il linguaggio è più universale, però anche lì il gratificare o correggere qualcuno varia in relazione all’atleta. Ovviamente l’età fa il suo e la comunicazione cambia in base alle diverse esigenze: un giocatore di 18 anni magari si cambia in spogliatoio con uno di 35 e gioca nella stessa sua squadra, ma vivono fasi e momenti completamente differenti”.
Un altro elemento che ruota intorno all’atleta è la famiglia, che come dice Beretta – “Può essere quella originaria dei genitori o la famiglia creata con la compagna”. Quali sono le difficoltà che si incontrano nel gestire la comunicazione anche con questo elemento? “Si cerca sempre di scindere le due cose. Viene al campo l’atleta e fa il suo lavoro e si allena. Se lo fa bene e con entusiasmo è quella la parte a cui mi devo dedicare. Certo, ho sempre detto loro che qualsiasi problema non inerente il campo può essere discusso nel mio spogliatoio: è capitato, in un paio di situazioni anche ad altissimo livello, in cui ci siamo confrontati ed ho cercato di aiutarli; però in realtà da tutto ciò che riguarda il “fuori dal campo”, se non sono loro a parlarne, ho sempre cercato di rimanere fuori il più possibile perché si rischia di entrare in dinamiche che possono incidere sul rendimento; se certe cose vengono fraintese oppure se vengono dette male parole nei confronti di un familiare, queste possono influenzare l’atleta”– ci racconta Beretta.
Lavorando con una squadra tutto il lavoro che si fa per l’atleta viene moltiplicato per ciascun componente della squadra e ciò comporta che ogni volta che entra qualcuno l’inserimento prevedere l’adattamento degli altri e in primis dell’allenatore ai nuovi arrivati. Ma come si fa a creare il clima di gruppo ogni volta che c’è un innesto? “Fortuna vuole che bene o male i calciatori si conoscano tutti anche se non in modo approfondito, anche attraverso le partite e c’è un’inclusione abbastanza veloce e senza particolari problemi. Come allenatore non ho mai dovuto cercare soluzioni per attriti o resistenze. – risponde Beretta- Io ho sempre cercato di dialogare con la squadra e con i ragazzi e di essere sempre disponibile cercando di far stare bene la squadra e gli atleti tra di loro. E’ chiaro che per una questione di affinità caratteriali, non sempre in 30 possono starsi simpatici. L’importante è che quando vanno in campo siano una squadra e si aiutino, perché quello è poi ciò che conta”.
Cosa succede quando però sale la tensione e, ad esempio nei post-partita non tutti sono d’accordo; cosa cerca di fare l’allenatore in queste circostanze, quali strategie utilizza? “Succede spesso, durante la settimana. Succede soprattutto quando la squadra non va tanto bene. Ho sempre pensato che se i giocatori vanno d’accordo è meglio, ma non è detto che se tutti vanno d’accordo sempre anche fuori dal campo, poi si vincano le partite. A volte certe tensioni aiutano, l’importante è che uno vada in campo per raggiungere i risultati come squadra e come individuo. È importante che tutti scendano in campo con una linea comune e tutti lavorino per cercare di raggiungere un obiettivo. Capita a volte che ci siano screzi a livello individuale con un atleta, ci siano percezioni di tensione individuali che rischiano di essere portate in squadra; è un rischio ma sta alla maturità sia dell’allenatore che dell’atleta ragionare sull’individuo e lasciare ciò che può emergere fuori dal contesto squadra, fuori dal campo”.
Tornando sul nostro giovane atleta che entra nel mondo sportivo, come ci arriva e cosa lo spinge a continuare? “Un ragazzo inizia a giocare a calcio perché da piccolino gioca a pallone…Poi andando avanti possono esserci i genitori che sono interessati…Ovviamente la famiglia influenza sempre in un senso o nell’altro. A volte i figli emulano i genitori nel fare uno sport per esempio. Il discorso si complica quando i ragazzi invece abbandonano presto, quando la motivazione si perde, probabilmente perché il loro obiettivo era raggiungere alti risultati e magari non riescono e pertanto decidono di smettere perché pensano di non farcela. A volte ci sono aspettative troppo elevate da parte dei ragazzi e a volte invece da parte dei genitori. Ci sono tanti input che arrivano da tutte le parti, quindi uno inizia a chiedersi perché deve allenarsi e perdere tempo invece di uscire con gli amici, andare a ballare, etc. e si perdono…Poi c’è anche un punto per cui forse dobbiamo farci un esame di coscienza noi allenatori e dirigenti: magari non riusciamo ad appassionarli e tenere l’entusiasmo, se vengono al campo e non si divertono”.
Ipotizziamo che il nostro giovane atleta sia entrato nel mondo dello sport e abbia deciso di continuare…Inizia a distinguersi nelle prime partite, è talentuoso; qui il carico di allenamento cambia e cambiano i sacrifici che gli vengono richiesti e le rinunce che deve fare: “Certo…E’ quello che bisogna fare per raggiungere il sogno. Però è anche vero che io parto da un concetto: se si fa ciò che piace non è un sacrificio. Chiaro che i ragazzi devono rinunciare a qualcosa che solitamente vogliono fare e che normalmente farebbero, ma per arrivare al massimo bisogna dedicare del tempo e fare sacrifici. Il discorso è molto semplice”.
Cosa succede quando c’è un talento e quando invece il talento non c’è? L’atleta è bravo ma ci è chiaro che quella non è la sua strada? “Il riconoscimento del talento da ragazzino si vede in modo marcato. Vedi uno che è decisamente più avanti degli altri dal punto di vista tecnico ma non è detto che questo possa poi arrivare in alto perché gli step sono tanti. Ti viene l’occhio, ma a volte ti sbagli… L’errore è all’ordine del giorno… Individuare un ragazzo ed essere certi che arriverà in alto sicuramente non è possibile. Magari ha più possibilità di altri, ma ci possono essere mille complicazioni. Per quanto riguarda il secondo caso il problema è il far capire. Io per esperienze personali fatte da responsabile del settore giovanile, mi prendevo sempre la responsabilità e la toglievo agli allenatori: ero io che convocavo, alla fine dell’anno, i genitori del ragazzo in questione, per dire loro che non era stato confermato in squadra professionistica. Chiedevo sempre allo psicologo del Club di essere presente per poi parlarne con i genitori e con il ragazzo subito dopo il colloquio. Erano momenti di negatività per loro: gli si dava una notizia, calcisticamente parlando, non bella. C’è chi la prende bene e chi malissimo. Nel worst case è vista come una sconfitta: lì è importante l’apporto della famiglia…Se anche la famiglia la vive come una sconfitta è la fine perché significa che hanno investito tutto nel figlio e hanno riversato tutto sul figlio. Se invece c’è una famiglia che sa che si gioca per divertirsi e più si impara più ci si diverte, da questa base si riesce a lavorare insieme.”
Non solo l’atleta vive queste difficoltà, anche l’allenatore è chiamato ad affrontare le sue sconfitte. “Io mi sono sempre fatto carico fin troppo delle sconfitte, ma dipende dal carattere. Mi sono messo in discussione tante volte – racconta Beretta- A volte sembra quasi di tradire le persone, i tifosi…Però è chiaro che dopo non devi portare questo all’interno della squadra. L’allenatore deve essere anche attore: nei momenti in cui vinci 5 partite di fila non devi cantar vittoria e quando perdi non devi abbatterti: devi mantenere sempre un certo equilibrio, tanto poi le persone te lo leggono in faccia. L’allenatore che riesce ad arrivare ad alto livello è colui che riesce ad assorbire di più le sconfitte: perché vincere è facile, il problema è quando perdi. Metti in dubbio tutto quello che stai facendo e se ti metti troppo in discussione rischi di dare impressione di incertezza…Sono momenti difficili, a volte azzardi per vedere la reazione del club e dei giocatori. È un terno al lotto.”
Ringraziamo Mario Beretta per il prezioso contributo e Psicosport che ci ha permesso di pubblicarlo.
DR
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